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Art. 669 - Pluralità di sentenze per il medesimo fatto contro la stessa persona

1. Se più sentenze di condanna divenute irrevocabili sono state pronunciate contro la stessa persona per il medesimo fatto, il giudice ordina l’esecuzione della sentenza con cui si pronunciò la condanna meno grave, revocando le altre.

2. Quando le pene irrogate sono diverse, l’interessato può indicare la sentenza che deve essere eseguita. Se l’interessato non si avvale di tale facoltà prima della decisione del giudice dell’esecuzione, si applicano le disposizioni dei commi 3 e 4.

3. Se si tratta di pena pecuniaria e pena detentiva, si esegue la pena pecuniaria. Se si tratta di pene detentive o pecuniarie di specie diversa, si esegue la pena di minore entità, se le pene sono di uguale entità, si esegue rispettivamente l’arresto o l’ammenda. Se si tratta di pena detentiva o pecuniaria e della sanzione sostitutiva della semidetenzione o della libertà controllata, si esegue, in caso di pena detentiva, la sanzione sostitutiva e, in caso di pena pecuniaria, quest’ultima.

4. Quando le pene principali sono uguali, si tiene conto della eventuale applicazione di pene accessorie o di misure di sicurezza e degli altri effetti penali. Quando le condanne sono identiche, si esegue la sentenza divenuta irrevocabile per prima.

5. Se la sentenza revocata era stata in tutto o in parte eseguita, l’esecuzione si considera come conseguente alla sentenza rimasta in vigore.

6. Le stesse disposizioni si applicano se si tratta di più decreti penali o di sentenze e di decreti ovvero se il fatto è stato giudicato in concorso formale con altri fatti o quale episodio di un reato continuato, premessa, ove necessaria, la determinazione della pena corrispondente.

7. Se più sentenze di non luogo a procedere o più sentenze di proscioglimento sono state pronunciate nei confronti della stessa persona per il medesimo fatto, il giudice, se l’interessato entro il termine previsto dal comma 2 non indica la sentenza che deve essere eseguita, ordina l’esecuzione della sentenza più favorevole, revocando le altre.

8. Salvo quanto previsto dagli articoli 69 comma 2 e 345, se si tratta di una sentenza di proscioglimento e di una sentenza di condanna o di un decreto penale, il giudice ordina l’esecuzione della sentenza di proscioglimento revocando la decisione di condanna. Tuttavia, se il proscioglimento è stato pronunciato per estinzione del reato verificatasi successivamente alla data in cui è divenuta irrevocabile la decisione di condanna, si esegue quest’ultima.

9. Se si tratta di una sentenza di non luogo a procedere e di una sentenza pronunciata in giudizio o di un decreto penale, il giudice ordina l’esecuzione della sentenza pronunciata in giudizio o del decreto.

Rassegna giurisprudenziale

Pluralità di sentenze per il medesimo fatto contro la stessa persona (art. 669)

Il divieto del bis in idem è principio generale dell’ordinamento, finalizzato ad evitare che per lo “stesso fatto”  inteso, ai fini della preclusione connessa al predetto principio, come corrispondenza storico  naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso casuale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona  si svolgano più procedimenti e si adottino più provvedimenti anche non irrevocabili, l’uno indipendentemente dall’altro, e trova la sua espressione in rapporto alle diverse scansioni procedimentali disegnate dal legislatore. Tale principio trova espressione nelle norme sui conflitti positivi di competenza (artt. 28 e ss.), nel divieto di un secondo giudizio (art. 649) e nella disciplina dell’ipotesi di una pluralità di sentenze per il medesimo fatto (art. 669). Anche se quest’ultima norma detta una disciplina dettagliata solo riguardo ai conflitti concernenti le sentenze e i decreti di condanna, essa è applicabile in via analogica anche con riferimento alle ordinanze del giudice dell’esecuzione, ogni qualvolta esso, rappresenti l’unico strumento possibile per eliminare uno dei due provvedimenti emessi per lo stesso fatto contro la stessa persona (Sez. 1, 47065/2018).

L'identità dei fatti di reato, rilevante ai fini dell'emissione di una declaratoria ex art. 669, non sussiste qualora, in relazione a periodi diversi, siano contestati all'imputato due diversi reati permanenti nell'ambito della stessa associazione (Sez. 1, 38999/2021).

L’identità del “fatto” sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, valutato in tutti i suoi elementi costitutivi della condotta, dell’evento e del nesso causale e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona, in cui la commissione si è realizzata”. In particolare, la Consulta (Corte costituzionale, sentenza 200/2016) ha dichiarato illegittimità costituzionale dell’art. 649, limitatamente alla parte in cui esclude la medesimezza del fatto di reato quando ricorra un concorso formale di reati tra res iudicata e res iudicanda, per contrasto con l’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, che vieta invece di procedere nuovamente quando il fatto storico è il medesimo; ha quindi riscontrato l’erroneità dell’opinione già prevalente nella giurisprudenza che concentra l’attenzione sulla dimensione giuridica del fatto e consente la celebrazione di un nuovo processo nei confronti dello stesso imputato se siano differenti le norme giuridiche che lo incriminano, dando luogo ad un’ipotesi di concorso formale. Sulla base delle sollecitazioni provenienti dalla Corte EDU (Grande Camera, 10/2/2009, Zolotoukhine contro Russia), la Corte costituzionale ha quindi posto l’accento sulla necessità di prendere in considerazione il fatto naturalistico nella sua materialità e concretezza, da individuarsi in base alle coordinate spazio-temporali di commissione. Ha osservato che: “Il fatto storico naturalistico rileva, ai fini del divieto di bis in idem, secondo l’accezione che gli conferisce l’ordinamento, perché l’approccio epistemologico fallisce nel descriverne un contorno identitario dal contenuto necessario. Fatto, in questa prospettiva, è l’accadimento materiale, certamente affrancato dal giogo dell’inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un’addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi. Non vi è, in altri termini, alcuna ragione logica per concludere che il fatto, pur assunto nella sola dimensione empirica, si restringa all’azione o all’omissione, e non comprenda, invece, anche l’oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l’evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell’agente. È chiaro che la scelta tra le possibili soluzioni qui riassunte è di carattere normativo, perché ognuna di esse è compatibile con la concezione dell’idem factum. Questo non significa che le implicazioni giuridiche delle fattispecie poste a raffronto comportino il riemergere dell’idem legale. Esse, infatti, non possono avere alcun rilievo ai fini della decisione sulla medesimezza del fatto storico. Ad avere carattere giuridico è la sola indicazione dei segmenti dell’accadimento naturalistico che l’interprete è tenuto a prendere in considerazione per valutare la medesimezza del fatto” (Sez. 1, 39874/2018).

Non viola il divieto di bis in idem convenzionale la celebrazione di un processo penale, e l’irrogazione della relativa sanzione, nei confronti di chi sia già stato sanzionato in via definitiva dall’amministrazione tributaria con una sovrattassa (nella specie pari al 30% dell’imposta evasa), purché sussista tra i due procedimenti una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta”. In linea di principio, infatti, l’art. 4 prot. 7 CEDU “non esclude che lo Stato possa legittimamente apprestare un sistema di risposte a condotte socialmente offensive (come l’evasione fiscale) che si articoli - nella cornice di un approccio unitario e coerente - attraverso procedimenti distinti, purché le plurime risposte sanzionatorie non comportino un sacrificio eccessivo per l’interessato, con il conseguente onere per la Corte di verificare se la strategia adottata da ogni singolo Stato comporti una violazione del divieto di ne bis in idem, oppure sia, al contrario il prodotto di un sistema integrato che permette di affrontare i diversi aspetti dell’illecito in maniera prevedibile e proporzionata, nel quadro di una strategia unitaria” (Corte EDU, decisione A. e B. contro Norvegia del 15.11.2016).

Una corretta analisi dell’istituto del ne bis in idem richiede l’esame preliminare delle principali norme di riferimento, da indentificare negli artt. 50 (Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge) e 52 CDFUE (1. Eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui. 2. I diritti riconosciuti dalla presente Carta che trovano fondamento nei trattati comunitari o nel trattato sull’Unione europea si esercitano alle condizioni e nei limiti definiti dai trattati stessi. Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa) e nell’art. 4 n. 7 del Protocollo aggiuntivo alla CEDU (1. Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato. 2. Le disposizioni del paragrafo precedente non impediscono la riapertura del processo, conformemente alla legge e alla procedura penale dello Stato interessato, se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio fondamentale nella procedura antecedente sono in grado di inficiare la sentenza intervenuta. 3. Non è autorizzata alcuna deroga al presente articolo ai sensi dell’articolo 15 della Convenzione). Il punto di partenza può essere agevolmente individuato nella sentenza della Corte EDU Grande Stevens/Italia del 4 marzo 2014 la quale, in materia di manipolazione del mercato, ha stabilito che uno stesso fatto non può essere sanzionato due volte, dapprima nel procedimento amministrativo (ex art. 187-ter D. Lgs. 58/1998), caratterizzato da una tale afflittività del peso della sanzione da essere senza dubbio ricompreso nella “materia penale” individuata secondo i criteri di Engel – che, a partire dal caso Engel e altri c. Paesi Bassi dell’8 giugno 1976, sono stati ritenuti parametri idonei a rivelare la sostanziale essenza penale di un determinato illecito, nonostante il nomen iuris adottato dal legislatore nazionale – e quindi, successivamente, in un procedimento penale sorto sugli stessi fatti, in base al reato di cui all’art. 185 D. Lgs. 58/1998. Con tale decisione, infatti, la Corte EDU chiarì che la natura sostanzialmente penale di una sanzione formalmente amministrativa, divenuta irrevocabile, comporta in ogni caso il divieto di una doppia sanzione e dell’inizio di un secondo procedimento in ordine al medesimo fattoSul punto va sottolineato che la nozione di “illecito amministrativo di natura sostanzialmente penale” è ormai considerata diritto vivente ed è recepita dalla Giurisprudenza delle Corti Europee e da quella di questa Corte di legittimità, che sovente si sono cimentate con la questione del doppio binario sanzionatorio e del conseguente problema della violazione del divieto di bis in idem, cioè della possibilità di sanzionare attraverso procedure parallele lo stesso fatto due volte con provvedimenti, uno di natura penale e l’altro solo formalmente amministrativo ma, per la sua portata afflittiva, di natura penale. L’impostazione rigorosa adottata dalla decisione Grande Stevens aveva interpretato l’art. 4 del protocollo 7 nel senso del divieto dell’inizio di un secondo procedimento nel caso in cui fosse già stata pronunziata una sentenza definitiva, non escludendo, quindi, la contemporanea apertura e prosecuzione di procedimenti paralleli per lo stesso fatto ma richiedendo l’interruzione di uno dei due nel momento in cui l’altro si fosse concluso in via definitiva. Questa impostazione è stata seguita in altre pronunzie della Corte EDU, come Nykanen/Finlandia del 20 maggio 2014, Lucki/Svezia del 27 novembre 2014, Kiivari/Finlandia del 10 febbraio 2015. Quest’ultima - in materia tributaria -- ha ribadito che per integrare la violazione del divieto in questione non importa che le fattispecie legali, penale-amministrativa e penale, siano diverse ma occorre tener conto dell’identità del fatto storico. La sentenza Butnaru/Romania del 23 giugno 2015 ha invece ribadito che l’efficacia preclusiva dell’art. 4 protocollo 7 impedisce l’instaurazione stessa di un secondo procedimento per il medesimo fatto. Con la sentenza A e B/ Norvegia della Grande Camera della Corte EDU del 15 novembre 2016 è stato ridimensionato il precedente orientamento in tema di ne bis in idem. Invero, è stato riaffermato il principio che gli Stati devono potere adottare risposte giuridiche complementari di fronte ad alcuni comportamenti socialmente inaccettabili, per mezzo di varie procedure che formino un insieme coerente, in maniera tale da trattare nei diversi aspetti il fatto in questione, purché le risposte combinate non rappresentino un onere eccessivo per il soggetto interessato e sanzionato. I presupposti dell’identità del fatto storico e della natura sostanzialmente penale di entrambe le sanzioni sono stati ribaditi, ma è stato affidato al giudice nazionale il compito di stabilire se ci si trovi, o meno, in presenza di un bis in idem, valutando se i procedimenti in questione presentino, avendo riguardo alle peculiarità dei casi di specie, l’ulteriore requisito di un nesso materiale e temporale sufficientemente stretto. Per indagare la sussistenza di una tale connessione, la Corte ha individuato alcuni criteri che i giudici nazionali dovranno prendere in considerazioneSi tratta, sotto il profilo del nesso materiale: a) del perseguimento, da parte dei procedimenti sanzionatori, di scopi differenti e del loro tenere conto di profili diversi della medesima condotta antisociale; b) della “prevedibilità” del doppio giudizio; c) della conduzione dei procedimenti in modo da evitare, per quanto possibile, la duplicazione nella raccolta e nella valutazione della prova; d) della “proporzione complessiva” della pena; e) dell’appartenenza delle fattispecie in oggetto al “nucleo duro” del diritto penale e, dunque, caratterizzate da forme accentuate di stigma sociale; sotto il profilo temporale: f) della presenza di un collegamento di natura cronologica fra i procedimenti, che devono essere sufficientemente vicini nel senso di non protrarsi eccessivamente nel tempo, affinché la persona sottoposta alla giustizia non lo sia per un periodo irragionevolmente prolungato. L’essenziale novità rispetto al precedente orientamento è individuabile nella considerazione che, secondo la pronuncia, i due procedimenti non solo possono iniziare ma anche concludersi, mutando in tal modo profondamente la natura del divieto di bis in idem convenzionale, che varia da principio eminentemente processuale del divieto del doppio processo, ancor prima che della doppia sanzione sostanzialmente penale, a garanzia di tipo sostanziale. Infatti, purché la risposta sanzionatoria, derivante dal cumulo delle due pene inflitte nei diversi procedimenti, sia complessivamente proporzionata alla gravità del fatto e prevedibile, nulla vieta ai legislatori nazionali di predisporre un doppio binario sanzionatorio ed alle Autorità preposte di percorrerlo fino alla decisione. Nella scala di valori espressi dai criteri suindicati quello della proporzionalità è considerato nella stessa pronuncia il principale, del resto in armonia con i principi generali del sistema penale in punto di trattamento sanzionatorio. Si è specificato che occorre stabilire se la sanzione imposta all’esito del procedimento conclusosi per primo sia stata tenuta presente nel procedimento conclusosi per ultimo, in modo da non far gravare sull’interessato un onere eccesivo; questo rischio è giudicato meno suscettibile di presentarsi se esiste un meccanismo compensatorio per assicurare che l’importo globale di tutte le pene sia proporzionato. Nel caso al suo esame  che riguardava una frode fiscale per la quale i ricorrenti erano stati sanzionati con maggiorazioni di imposta dal fisco, accettate e pagate, e poi condannati penalmente  la Corte europea ha ritenuto importante, per giudicare la mancanza di pregiudizio sproporzionato, che la sanzione penale avesse tenuto conto della maggiorazione d’imposta, che secondo la Corte Suprema norvegese rivestiva natura penale, giudizio che, secondo la Corte EDU, non vi era motivo di riconsiderare. L’estrema sintesi dei principi affermati nella decisione in parola  si ripete riportati nella misura in cui appaiono utili allo sviluppo del discorso che ora si intende condurre  ha necessità di un ultimo riferimento inerente l’ordine in cui si tengono e giungono a conclusione i procedimenti, che, alla luce del principio di proporzionalità complementare tra le sanzioni, non può costituire un elemento decisivo per pronunciarsi sulla questione di stabilire se l’articolo 4 del Protocollo 7 permetta procedimenti misti, cioè imperniati sul doppio binario, essendo invece determinati i criteri innanzi enunciati; alla luce di questi occorre verificare se vi sia tra le procedure un nesso materiale e temporale sufficientemente stretto e che in definitiva formino un insieme sanzionatorio integrato, non sproporzionato alla gravità del fatto illecito. Anche la CGUE è intervenuta più volte e recentissimamente sul tema della violazione del divieto di bis in idem e doppio binario sanzionatorio. Con la decisione Aklagaren c. Hans Akerberg Fransson del 26.2.2013, C-617/10, la Corte ha ribadito che gli Stati membri sono liberi di definire tipologia e quantum di sanzioni per tutelare gli interessi finanziari dell’Unione. In linea di principio, dunque, essi sono legittimati a ricorrere contestualmente a misure amministrative e penali, purché la formale qualificazione delle prime non celi in realtà un’indebita duplicazione punitiva, in spregio al divieto di doppio giudizio. In quest’ultimo caso, infatti, i criteri di Engel  a) della qualificazione giuridica della violazione nell’ordinamento nazionale; b) della natura effettiva della violazione; c) del grado di severità della sanzione  soccorrerebbero l’interprete nel ritenere applicabile l’art. 50 CDFUE e, quindi, nel ritenere violato il divieto del doppio giudizio. In particolare, la valutazione sulla compatibilità del cumulo di sanzioni con il ne bis in idem spetta in via prioritaria al giudice nazionale e può anche poggiare sugli standard di tutela interni, purché ciò non infici il livello di protezione assicurato dalla CDFUE e il primato del diritto dell’Unione europea. Nel mese di marzo di quest’anno la CGUE ha emesso tre sentenze in materia, i cui percorsi argomentativi sono in sostanza analoghi, pur se il caso Di Puma Zecca ha riguardato la diversa ipotesi dell’impossibilità di instaurare nei confronti di persone fisiche assolte in sede penale un nuovo procedimento diretto all’inflizione di una sanzione di natura amministrativa ma sostanzialmente penale, quale quella prevista dall’art. 187-bis TUF. Tra queste è qui esplicitamente presa in considerazione la sentenza Garlsson Real Estate sulla legittimità della sanzione amministrativa irrogata per il medesimo fatto per il quale l’interessato era già stato condannato in sede penale, alla luce del principio di cui all’art. 50 CDFUE. La pronunzia ha riguardato un caso di manipolazione del mercato, nel quale si discuteva dell’inflizione da parte della CONSOB di una sanzione pecuniaria di natura amministrativa/penale, ai sensi dell’art. 187-ter TUF, mentre i soggetti sanzionati erano già stati destinatari di una sentenza definitiva del giudice penale in relazione al reato di cui all’art. 185 TUF, scaturita da un patteggiamento. La seconda questione pregiudiziale posta alla Corte era stata: “se il giudice nazionale possa applicare direttamente i principi unionali in relazione al principio del “ne bis in idem”, in base all’art. 50 CDFUE, interpretato alla luce dell’art. 4 prot. n. 7 CEDU, della relativa giurisprudenza della Corte EDU e della normativa nazionale”. In merito, la Grande Sezione ha identificato l’obiettivo perseguito dalla normativa istitutiva del doppio binario sanzionatorio nella tutela dei mercati finanziari dell’Unione e della fiducia del pubblico negli strumenti finanziari e lo ha ritenuto adeguato a fondare la limitazione dell’art. 50 CDFUE, nonché sufficientemente proporzionato a tale scopo. Quanto al rispetto del principio di proporzionalità è stato ribadito che il cumulo di procedimenti e di sanzioni previsto da una normativa nazionale non deve superare i limiti di quanto idoneo e necessario al conseguimento degli scopi legittimi perseguiti dalla normativa di cui trattasi, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta fra più misure appropriate, si deve ricorrere alla meno restrittiva. La Corte ha, altresì, affermato che in assenza di armonizzazione del diritto unionale in materia, gli Stati possono discrezionalmente stabilire se prevedere un unico procedimento di natura penale o amministrativa ovvero un doppio binario sanzionatorio. La scelta dello Stato membro interessato di prevedere la possibilità di un cumulo di procedimenti non è in sé significativa della lesione del criterio di proporzionalità, salvo altrimenti privare detto Stato della stessa libertà di scelta in proposito. Peraltro, il cumulo delle sanzioni deve essere accompagnato da norme che garantiscano che la severità dell’insieme delle sanzioni inflitte corrisponda alla gravità del reato, derivando tale obbligo dall’articolo 52 par. 1 CDFUE e dal principio di proporzionalità delle pene sancito dall’articolo 49, par. 3. Tali norme devono contemplare per le autorità procedenti, in caso di irrogazione di una seconda sanzione, il dovere di verificare che la severità del trattamento sanzionatorio complessivo non ecceda la gravità del reato. In ordine agli altri requisiti, la Corte ha osservato che non sussistono problemi di prevedibilità della limitazione, essendo “pacifico che la possibilità di cumulare procedimenti e sanzioni penali così come procedimenti e sanzioni amministrative di natura penale è prevista dalla legge [...] ed essa consente un siffatto cumulo di procedimenti e di sanzioni unicamente a condizioni fissate in modo tassativo”. La CGUE, tuttavia, ha precisato che nel caso in cui al termine del processo penale sia stata inflitta una condanna idonea a sanzionare l’infrazione in modo efficace, proporzionato e dissuasivo, la prosecuzione del procedimento formalmente amministrativo ma sostanzialmente penale di cui all’art. 187-ter TUF eccede quanto strettamente necessario per conseguire l’obiettivo che la normativa in materia di manipolazione di mercato si prefigge. Nella fattispecie concreta la Corte ha rilevato che i fatti di manipolazione del mercato previsti dall’ art. 185 TUF devono essere caratterizzati da una certa gravità e sono puniti congiuntamente con la pena della reclusione e della multa, il cui spazio edittale corrisponde a quello previsto per la sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 187-ter TUF. La presenza della pena della reclusione ha indotto la CGUE a ritenere che il meccanismo di riequilibrio sanzionatorio dell’art. 187-terdecies TUF, che prevede che, quando per lo stesso fatto sono state applicate una multa e una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale, l’esazione della multa è limitata alla parte eccedente l’importo della sanzione amministrativa, “non garantisce che la severità dell’insieme delle sanzioni inflitte sia limitata a quanto strettamente necessario rispetto alla gravità del reato in questione, dal momento che l’articolo 187-terdecies sembra avere ad oggetto solamente il cumulo di pene pecuniarie, e non il cumulo di una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale e di una pena della reclusione”. Naturalmente al giudice nazionale spetta il compito di verificare la corrispondenza del principio affermato al caso concreto, alla luce di tutte le circostanze del fatto al suo esame. Ai quesiti posti la Corte ha risposto osservando che “l’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea dev’essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale, che consente di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale nei confronti di una persona per condotte illecite che integrano una manipolazione del mercato, per le quali è già stata pronunciata una condanna penale definitiva a suo carico, nei limiti in cui tale condanna, tenuto conto del danno causato alla società dal reato commesso; sia idonea a reprimere tale reato in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva”. Con riguardo al secondo dei quesiti, concernente la diretta applicabilità del diritto in questione, la Corte ha chiarito che “il principio del ne bis in idem garantito dall’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea conferisce ai soggetti dell’ordinamento un diritto direttamente applicabile nell’ambito di una controversia come quella oggetto del procedimento principale”. La Corte costituzionale italiana con sentenza 43/2018 è tornata a pronunciarsi sulla compatibilità con i principi costituzionali del doppio binario sanzionatorio, amministrativo e penale. La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dal Tribunale di Monza ed aveva riguardato l’art. 649 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti dell’imputato al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dei relativi Protocolli». La Corte costituzionale, dopo aver ricostruito i più recenti approdi delle Corti europee, ha richiamato il principio, ormai consolidato, del nesso strumentale e temporale sufficientemente stretto, affermato dalla pronuncia della Grande Camera della Corte EDU A e B c. Norvegia, che, ove riscontrato sussistente tra i due procedimenti amministrativo e penale, rende il doppio binario conforme alla CEDU e segnatamente all’art. 4 Prot. 7. La Consulta ha rilevato che, a seguito della sentenza A e B c. Norvegia, i presupposti intorno ai quali è stata costruita dal rimettente la questione di legittimità costituzionale sono venuti meno. La svolta giurisprudenziale elaborata nella predetta pronunzia è stata ritenuta dalla Corte costituzionale potenzialmente produttiva di effetti con riguardo al rapporto tra procedimento tributario e procedimento penale. In precedenza, l’autonomia dell’uno rispetto all’altro escludeva in radice che essi potessero sottrarsi al divieto di bis in idem. Oggi vi è la possibilità che in concreto gli stessi siano ritenuti sufficientemente connessi, in modo da far escludere l’applicazione del divieto di bis in idem. In considerazione di ciò, la Corte costituzionale ha concluso in questi termini: “il mutamento del significato della normativa interposta, sopravvenuto all’ordinanza di rimessione per effetto di una pronuncia della Grande Camera della Corte di Strasburgo, che esprime il diritto vivente europeo, comporta la restituzione degli atti al giudice a quo, ai fini di una nuova valutazione sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale. Se, infatti, il giudice a quo ritenesse che il giudizio penale è legato temporalmente e materialmente al procedimento tributario al punto da non costituire un bis in idem convenzionale, non vi sarebbe necessità ai fini del giudizio principale di introdurre nell’ordinamento, incidendo sull’art 649, alcuna regola che imponga di non procedere nuovamente per il medesimo fatto”. Il panorama delle pronunzie sul tema  che per le ragioni già espresse è riportato in maniera necessariamente sintetica  può essere completato dal riferimento ad una sentenza di legittimità (Sez. 3, 6993/2017) la quale ha affermato il principio che non sussiste la violazione del “ne bis in idem” convenzionale nel caso della irrogazione definitiva di una sanzione formalmente amministrativa, della quale venga riconosciuta la natura sostanzialmente penale, ai sensi dell’art. 4 Protocollo n. 7 CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nelle cause Grande Stevens e altri contro Italia del 4 marzo 2014, e Nykanen contro Finlandia del 20 maggio 2014, per il medesimo fatto per il quale vi sia stata condanna a sanzione penale, quando tra il procedimento amministrativo e quello penale sussista una connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta, tale che le due sanzioni siano parte di un unico sistema, secondo il criterio dettato dalla suddetta Corte nella decisione A. e B. contro Norvegia del 15 novembre 2016. In definitiva  nel ricorrere degli altri indici rivelatori dello stretto nesso materiale e temporale  è considerata legittima la parallela instaurazione, prosecuzione e decisione sanzionatoria tramite il doppio binario di procedure, purché esse formino un insieme integrato di procedimenti e di relative sanzioni, caratterizzato dalla prevedibilità; ed al giudice nazionale, in base ai suindicati sub criteri, è affidato il compito di accertarne la ricorrenza nel caso concreto. Di certo, tutto ciò comporta, in mancanza di un chiaro riferimento normativo, l’esercizio di compiti interpretativi molto complessi ed articolati, che non possono prescindere da una attenta valutazione dei singoli casi concreti con i quali il giudice si deve confrontare (questa ricostruzione sistematica si deve a Sez. 5, 45829/2018).

Non sussiste la violazione del ne bis in idem convenzionale nel caso della irrogazione definitiva di una sanzione formalmente amministrativa, della quale venga riconosciuta la natura sostanzialmente penale, ai sensi dell’art. 4 Protocollo n. 7 CEDU, come interpretato dalla Corte EDU nelle cause “Grande Stevens e altri contro Italia” del 4 marzo 2014, e “Nykanen contro Finlandia” del 20 maggio 2014, per il medesimo fatto per il quale vi sia stata condanna a sanzione penale, quando tra il procedimento amministrativo e quello penale sussista una connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta, tale che le due sanzioni siano parte di un unico sistema, secondo il criterio dettato dalla suddetta Corte nella decisione “A. e B. contro Norvegia” del 15 novembre 2016 (Sez. 3, 6993/2018).

È preclusa la deducibilità della violazione del divieto di “bis in idem” in conseguenza della irrogazione, per un fatto corrispondente sotto il profilo storico-naturalistico a quello oggetto di sanzione penale, di una sanzione formalmente amministrativa, ma della quale venga riconosciuta la natura “sostanzialmente penale” secondo l’interpretazione data dalle decisioni emesse dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nelle cause “Grande Stevens e altri contro Italia” del 4 marzo 2014, e Nykanen contro Finlandia” del 20 maggio 2014, quando manchi qualsiasi prova della definitività della irrogazione della sanzione amministrativa medesima (Sez. 3, 46233/2018).

La giurisprudenza ha respinto, in modo compatto con riguardo alla nozione di idem factum, in materia di applicazione del divieto di bis in idem, la tesi sostenuta da una parte della dottrina, secondo la quale, una volta riconosciuta la natura unitaria del reato permanente, il suddetto principio dovrebbe precludere un nuovo giudizio - e, dunque, la possibilità di applicare una ulteriore pena, per la condotta tipica posteriore a quella che ha già dato luogo a un giudicato di condanna, posto che la diversa connotazione temporale del fatto - e, in particolare, la sua dilatazione sul piano cronologico - non ne scalfirebbe l’identità agli effetti dell’art. 649. La giurisprudenza di legittimità appare salda nel ritenere, in senso contrario, che, con riguardo al reato permanente, il divieto di un secondo giudizio riguarda soltanto la condotta posta in essere nel periodo indicato nell’imputazione e accertata con la sentenza irrevocabile, e non anche la prosecuzione o la ripresa della stessa condotta in epoca successiva, la quale integra un “fatto storico” diverso, non coperto dal giudicato, per il quale non vi è alcun impedimento a procedere. Ciò in quanto l’identità del fatto, rilevante ai fini dell’operatività del principio del ne bis in idem, sussiste solo quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (SU, 34655/2005), affermazione scrutinata, e ritenuta corretta, anche dal giudice delle leggi (Corte costituzionale, sentenza 129/2008) (la ricostruzione si deve a Sez. 6, 46023/2018).

Il processo celebrato all’estero nei confronti del cittadino non preclude la rinnovazione del giudizio in Italia per gli stessi fatti, in quanto nell’ordinamento giuridico italiano non vige il principio del “ne bis in idem” internazionale, prevedendo l’art. 11, comma 1, Cod. pen. la rinnovazione del giudizio nei casi indicati dall’art. 6 Cod. pen., cioè quando l’azione o l’omissione che costituisce il reato è avvenuta in tutto o in parte nel territorio dello Stato. Ciò trova conferma nell’art. 138 stesso codice, il quale, per l’ipotesi di giudizio seguito all’estero e rinnovato in Italia, prevede come legittima l’esecuzione della pena inflitta dall’AG italiana, disponendo che vi venga sempre computata la pena scontata all’estero (Sez. 4, 3315/2017).

Se pure deve riconoscersi che il principio del ne bis in idem costituisce in effetti “un principio tendenziale cui si ispira oggi l’ordinamento internazionale, e risponde del resto a evidenti ragioni di garanzia del singolo di fronte alle concorrenti potestà punitive degli Stati” (Corte costituzionale, sentenza 58/1997) e che si assiste effettivamente ad una evoluzione legislativa che va nel senso di riconoscere efficacia preclusiva ad una sentenza straniera che abbia irrevocabilmente giudicato di un reato commesso in Italia da un cittadino straniero, o, come nella specie, di un cittadino italiano all’estero (processo che vede quali tappe significative, prima, la Convenzione di Bruxelles del 25 maggio 1987, resa esecutiva in Italia con L. 350/1989, e poi, soprattutto, la L.  388/1993, che ha segnato il recepimento da parte dell’Italia dell’Accordo di Schengen del 14 giugno 1985), ciò non significa ancora che per effetto di tale evoluzione normativa il principio del ne bis in idem, possa considerarsi, rispetto alle sentenze straniere, come principio generale di diritto riconducibile alla categoria delle norme del diritto internazionale generalmente riconosciuto, oggetto di ricezione automatica ai sensi dell’art. 10 Cost. Si ritiene, in altri termini, in adesione all’opinione prevalente in dottrina e in giurisprudenza (Sez. 1, 13558/1998; Sez. 1, 28299/2004), che seppure in forza dell’art. 54 della Convenzione applicativa dell’accordo di Schengen, non si può più procedere in Italia, anche con riguardo a reati quivi commessi, nei confronti di una persona che sia stata definitivamente condannata o assolta per lo stesso fatto in uno Stato dell’area Schengen, resta tuttavia ferma, ratione temporis, l’irrilevanza del bis in idem internazionale con riguardo a sentenza penale deliberata in un paese, quale la Confederazione Svizzera, che soltanto in data 26.10.2004 ha concluso con l’UE l’accordo riguardante l’adesione della Svizzera all’attuazione, all’applicazione e allo sviluppo dell’Accordo di Schengen, peraltro entrato in vigore il 12.12.2008 (Sez. 5, 7687/2009). In altri termini, un processo celebrato nei confronti di cittadino straniero in uno Stato con cui non vigono accordi idonei a derogare alla disciplina dell’art. 11 Cod. pen. non preclude la rinnovazione del giudizio in Italia per gli stessi fatti, non essendo il principio del “ne bis in idem” principio generale del diritto internazionale, come tale applicabile nell’ordinamento interno (Sez. 1, n. 20464/2013). Se pure deve riconoscersi, quindi, come già affermato dal giudice delle leggi in una pur risalente decisione (Corte costituzionale, sentenza 48/1967), che “ponendosi in una prospettiva ideale, che già trova fervide iniziative e convinti sostenitori, si può auspicare per il futuro l’avvento di una forma talmente progredita di società di Stati da rendere possibile, almeno per i fondamentali rapporti della vita, una certa unità di disciplina giuridica e con essa una unità e una comune efficacia di decisioni giudiziarie”, ben diversa tuttavia, pur nel suo continuo evolversi, si presenta la realtà attuale, “dove la valutazione sociale e politica dei fatti umani, in ispecie nel campo penale, si manifesta con variazioni molteplici e spesso profonde da Stato a Stato. E ciò in conformità dei diversi interessi e dei variabili effetti riflessi della condotta degli uomini in ciascuno di essi, con la conseguente tendenza a mantenere come regola, nell’autonomia dei singoli ordinamenti, il principio della territorialità” (la ricostruzione sistematica si deve a Sez. 1, 41180 /2018).

Nell’ordinamento convenzionale CEDU (al quale appartengono sia l’Italia, avendo il nostro Paese ratificato la convenzione il 26 ottobre 1955, che la Francia), il principio del ne bis in idem è stato inserito per effetto del VII protocollo, firmato a Strasburgo il 22 novembre 1984 (e, peraltro, ad oggi non ancora ratificato da tutti gli Stati membri). A tale principio è conferita la massima tutela possibile, essendo stato qualificato (art. 4, paragrafo 3) come una delle (rare) ipotesi di diritti non derogabili, neanche in caso di guerra o di altro pericolo che minacci la vita della nazione, al pari di quanto previsto dall’art. 15 della Convenzione per altri diritti/principi fondamentali (il diritto alla vita, il divieto di tortura, il divieto di schiavitù e il principio di non retroattività della legge penali). Occorre tuttavia osservare che, nell’ordinamento della Convenzione, l’ambito di applicazione territoriale del principio è circoscritto allo Stato ove è intervenuto il giudizio; in altri termini nulla è previsto per il caso di giudizi presso Stati diversi anche se entrambi tutti firmatari della CEDU (nonostante sia proprio quest’ultimo caso quello nel quale il rischio di imputazioni coincidenti e concorrenti sia più concreto e reale, posto che, nella maggior parte degli Stati il principio del ne bis in idem processuale è riconosciuto nei rispettivi diritti nazionali). Considerazioni diverse valgono per l’ordinamento euro-unitario (del quale pure fanno parte Italia e Francia, che peraltro sono stati 2 dei 6 Stati fondatori). In detto ordinamento, il principio del ne bis in idem ha ricevuto la sua prima consacrazione con la Convenzione fra gli Stati membri delle Comunità europee, adottata a Bruxelles il 25 maggio 1987, poi sostituita dagli artt. 54-58 della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen (CAAS) adottata il 19 giugno 1990. Successivamente, con l’emersione dello Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia (c.d. Terzo Pilastro del Trattato di Maastricht), il principio si è ulteriormente sviluppato diventando un passaggio fondamentale per la costruzione di uno spazio giudiziario unitario europeo e per la concreta attuazione della libera circolazione delle persone in ambito europeo (cfr. l’articolo 3, paragrafo 2, TUE, nonché l’articolo 67, paragrafo 1, TFUE). Da ultimo ha ricevuto esplicito riconoscimento nell’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ai sensi del quale “nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge”. Da ciò si desume l’esistenza di un ne bis in idem eurounitario, valevole per i Paesi aderenti all’Unione europea (previo accertamento del giudice dello Stato procedente o eventuale valutazione pregiudiziale della Corte di Giustizia ex art. 35 TUE (Sez. 4, 57664/2017).

La preclusione connessa al principio del “ne bis in idem” opera, nel caso in cui il reato già giudicato si ponga in concorso formale con quello oggetto del secondo giudizio, solo se sussista l’identità del fatto storico, inteso sulla base della triade condotta-nesso causale-evento (Sez. 4, 54986/2017).

La preclusione del “ne bis in idem” non opera qualora tra i fatti già irrevocabilmente giudicati e quelli ancora da giudicare sia configurabile- come nella specie- un’ipotesi di “concorso formale di reati”, potendo in tal caso la stessa fattispecie essere riesaminata sotto il profilo di una diversa violazione di legge, fatta salva l’ipotesi in cui nel primo giudizio sia stata dichiarata l’insussistenza del fatto o la mancata commissione di esso da parte dell’imputato (poiché in questo caso l’evento giuridico considerato successivamente si pone in rapporto di inconciliabilità logica con il fatto già giudicato) (Sez. 3, 55474/2017).

Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale, ai fini della duplicazione processuale ex art. 649 - comportante il divieto di bis in idem operante anche in materia cautelare e che presuppone una decisione de libertate irrevocabile - per medesimo fatto deve intendersi ciò che risulta dai suoi elementi costitutivi: cioè dalla condotta, dall’evento e dal nesso di causalità. Nel caso di procedimento per il delitto di cui all’art. 416-bis Cod. pen., al fine di escludere la medesimezza del fatto non rilevano né, dal punto di vista del soggetto, eventuali mutamenti nelle modalità di partecipazione (attività e ruoli), né, dal punto di vista dell’organizzazione, eventuali mutamenti in ordine all’ampiezza dell’oggetto del programma criminoso o in relazione al numero dei componenti (Sez. 5, 41868/2018).

È illegittima la misura custodiale emessa in un procedimento promosso in violazione del principio del ne bis in idem in quanto adottata in presenza di una causa di non punibilità nella quale devono essere ricomprese anche le cause di improcedibilità dell’azione penale (Sez. 6, 8618/2016).

Anche ai provvedimenti de libertate va riconosciuta una efficacia preclusiva di natura endoprocessuale fondata sul principio del ne bis in idem di cui all’art. 649, sia pur limitata allo stato degli atti e relativa alle sole questioni dedotte espressamente o implicitamente (Sez. 4, 46454/2018).

Non può essere nuovamente promossa l’azione penale per un fatto e contro una persona per i quali un processo già sia pendente (anche se in fase o grado diversi) nella stessa sede giudiziaria e su iniziativa del medesimo ufficio del PM, di talché nel procedimento eventualmente duplicato dev’essere disposta l’archiviazione oppure, se l’azione sia stata esercitata, dev’essere rilevata con sentenza la relativa causa di improcedibilità. Il difetto di procedibilità, in quanto espressione della già avvenuta consumazione del potere esistente in capo al PM procedente, può concernere solo procedimenti pendenti nella stessa sede giudiziaria, ancorché in fase o grado differenti, ovvero su iniziativa del medesimo PM. Mentre, ove si sia in presenza di un’ipotesi di duplicazione del processo innanzi a giudici di diverse sedi giudiziarie, uno dei quali incompetente, si avrà una situazione di conflitto fra uffici giudiziari, tale da determinare una stasi o blocco processuale, risolvibile mediante l’applicazione delle disposizioni a tal specifico fine dettate dagli artt. 28 e ss. (Sez. 6, 47442/2018).

Il principio del ne bis in idem, sancito nell’ordinamento processuale dell’art. 649, si riferisce alla duplicazione di procedimenti per uno stesso fatto nei confronti di uno stesso soggetto e non anche alla duplicazione di procedimenti di sequestro o confisca di uno stesso bene in relazione a fatti diversi o nei confronti di soggetti diversiRisulta, anzi, del tutto fisiologico che uno stesso bene possa essere sottoposto a sequestro o a confisca in distinti procedimenti, perché le esigenze cautelari o sanzionatorie possono trovare autonoma espressione nell’ambito di ciascuno di essi (Sez. 3, 48395/2018).

Non sussiste alcuna ragione di ordine testuale e/o sistematico per non applicare alle sentenze pronunciate ai sensi dell’art. 17 della L. 69/2005 (in tema di MAE e procedure di consegna tra Stati membri) il disposto dell’art. 649 ed il divieto di bis in idem. Allo stato attuale dell’elaborazione giurisprudenziale di legittimità, infatti, è dato individuare una sola situazione in cui la sentenza irrevocabile di rifiuto della consegna possa considerarsi una pronuncia meramente processuale ed è quella contemplata da Sez. 6, 23277/2016, in tema di MAE cosiddetto esecutivo, quando venga in rilievo il motivo di rifiuto della consegna di cui all’art. 18, comma 1, lett. h), L. 69/2005 ricorrente in caso di “serio pericolo” che la persona ricercata venga sottoposta alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti a causa delle precarie condizioni strutturali carcerarie o da sovraffollamento esistenti nel Paese dello Stato di emissione del MAE, secondo le prescrizioni anche di carattere procedimentale indicate dalla CGUE nella sentenza 5 aprile 2016, C404/15, Aaranyosi e C 659/15, Caldararu. Ebbene, tale pronuncia ha espressamente affermato che l’eventuale pronuncia di rifiuto della consegna in caso di mancata trasmissione delle informazioni richieste da parte dello Stato di emissione costituisce una decisione «allo stato degli atti» che, in conformità alle indicazioni dettate dalla CGUE, deve considerare che, entro un tempo ragionevole, o Stato di emissione possa adottare in relazione alla persona richiesta le misure necessarie per assicurare le condizioni essenziali per la consegna stessa, ovvero il rispetto dei diritti inviolabili della persona umana, sanciti dalla CDFUE. Il che significa che, laddove l’AG dello Stato di emissione faccia pervenire, successivamente e comunque entro un termine ragionevole, le suddette informazioni, alla luce dei parametri sopra indicati, il giudicato allo stato degli atti formatosi sul rifiuto della consegna, se rende irretrattabili le altre questioni già decise, non impedisce la pronuncia di una successiva sentenza favorevole alla consegna, in relazione ai nuovi elementi sopravvenuti sulle condizioni di futura detenzione. Fatta dunque eccezione per questa particolare tipologia di pronuncia, tutte le altre sentenze emesse ex art. 17 L. 69/2005 sono sottoposte all’art. 649 e quindi al divieto di bis in idem (Sez. 6, 35290/2018).

Il principio del ne bis in idem assume portata generale nel vigente diritto processuale penale, trovando espressione nelle norme sui conflitti positivi di competenza (art. 28), nel divieto di un secondo giudizio (art. 649), nella disciplina dell’ipotesi di una pluralità di sentenze per il medesimo fatto (art. 669). È, quindi, indubbio che nel procedimento di esecuzione opera il principio della preclusione processuale derivante dal divieto del bis in idem, nel quale, secondo la giurisprudenza di legittimità, s’inquadra la regola dettata dal secondo comma dell’art. 666, che impone al giudice dell’esecuzione di dichiarare inammissibile la richiesta che sia mera riproposizione, in quanto basata sui «medesimi elementi», di altra già rigettata. Con tale limite si è inteso creare, per arginar richieste meramente dilatorie, un filtro processuale, ritenuto dal legislatore delegato necessario in un’ottica di economia e di efficienza processuale. In questa prospettiva emerge la nozione di «giudicato esecutivo», impiegata in senso atecnico, per rappresentare l’effetto «auto conservativo» di un accertamento rebus sic stantibus: più correttamente la stabilizzazione giuridica di siffatto accertamento deve essere designata con il termine «preclusione», proprio al fine di rimarcarne le differenze con il concetto tradizionale di giudicato. Appare, quindi, un dato acquisito, nella giurisprudenza di legittimità, quello secondo cui è ammissibile la proposizione di un nuovo incidente di esecuzione che si fondi su nuovi elementi, allorquando la precedente richiesta sia stata respinta (Sez. 7, 27068/2018).

Il principio del “ne bis in idem” è applicabile anche nel procedimento di prevenzione, ma la preclusione del giudicato opera “rebus sic stantibus e, pertanto, non impedisce la rivalutazione della pericolosità ai fini dell’applicazione di una nuova o più grave misura ove si acquisiscano ulteriori elementi, precedenti o successivi al giudicato, ma non valutati, che comportino un giudizio di maggiore gravità della pericolosità stessa e di inadeguatezza delle misure precedentemente adottate (SU, 600/2009).

La sorveglianza speciale non può essere assimilata a una pena perché mira ad impedire il compimento di atti criminali; il procedimento ivi relativo non verte dunque sul “bene fondato” di una “accusa in materia penale (Corte EDU, sentenza Raimondo c/o Italia del 22.2.1994 e decreto Prisco c. Italia del 22.6.1999).

La Corte EDU ha escluso la natura penale delle misure di prevenzione, rilevando che esse non possono essere assimilate ad una pena in quanto tendono ad impedire la commissione di atti criminali e non a sanzionarne la realizzazione. Ha quindi recepito le indicazioni del Governo Italiano e la giurisprudenza costante sia di legittimità (da ultimo SU, 4880/2014 la quale ha ribadito l’assimilazione dell’istituto alle misure di sicurezza) che della Corte costituzionale sulla natura giuridica delle misure di prevenzione come misure non assimilabili a quelle penali, la cui applicazione non è dunque impedita dall’eventuale esistenza di un giudicato penale (Sez. 2, 26235/2015).

Non comporta una violazione del principio del “ne bis in idem” l’irrogazione, per un fatto corrispondente a quello oggetto di sanzione penale, di una sanzione disciplinare che, per qualificazione giuridica, natura e grado di severità non può essere equiparata a quella penale, secondo l’interpretazione data dalla sentenza emessa dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nella causa “Grande Stevens contro Italia” del 4 marzo 2014 (Sez. 2, 34767/2018).

Sulla base del criterio della “sanzione che, per natura e livello di gravità, rientri nell’ambito della materia penale”, il procedimento disciplinare previsto dell’ordinamento penitenziario ed il procedimento penale, pur avendo ad oggetto il medesimo fatto inteso in senso storico-naturalistico (nel caso di specie, la condotta violenta nei confronti di personale della polizia penitenziaria che compiva un atto del proprio ufficio), sono ontologicamente riferibili a sistemi giuridici diversi (atteso, quantomeno, che solo il secondo è giurisdizionalizzato) e non sfociano in misure sanzionatorie equiparabili in quanto la sanzione disciplinare di esclusione dall’attività comune prevista dall’art. 39 Ord. pen. non è qualificabile come penale e non ha la sostanza di una sanzione penale, comportando soltanto una diversa modalità della restrizione carceraria già caratterizzata dallo status detentionis (Sez. 6, 47028/2018).

Il principio del ne bis in idem è applicabile in via analogica con riferimento alle ordinanze del giudice dell’esecuzione, nei casi in cui esso costituisca l’unico strumento possibile, per eliminare uno dei due provvedimenti emessi per lo stesso fatto contro la stessa persona (Sez. 1, 45556/2015).

In caso di pluralità di provvedimenti giudiziari di condanna irrevocabili e pronunciati nei confronti della stessa persona per il medesimo fatto di reato, punito con pene di specie diverse, la scelta operata dalla parte condannata della sentenza da eseguire è vincolante per il giudice, che non può applicare un diverso criterio, nemmeno se quella da porre in esecuzione sia la pena più gravosa (Sez. 1, 32311/2018).

Nel procedimento ai sensi dell’art. 669, il giudizio se siano state pronunciate più condanne nei confronti della medesima persona per il medesimo fatto va condotto sulla base di quanto accertato in sede di cognizione, e non sulla base di una diversa rilettura dei fatti compiuta dal giudice dell’esecuzione (Sez. 1, 37072/2018).

In caso di pluralità di giudicati relativi allo stesso fatto ed alla stessa persona, il giudice dell’esecuzione deve ordinare l’esecuzione del giudicato meno afflittivo e revocare quello più grave (Sez. 1, 20015/2016).

Il divieto di pluralità di sentenze contro la stessa persona per il medesimo fatto di reato non viene meno allorché uno dei provvedimenti giudiziali che si sono pronunciati sia rappresentato da una sentenza di applicazione della pena a richiesta delle parti, che, ai fini dell’esecuzione e di quanto disposto dall’art. 669, è suscettibile anche di revoca parziale.

Né sono ravvisabili ostacoli di ordine pratico alla soluzione indicata: una volta riconosciuta in punto di fatto la medesimezza dell’illecito contestato ed accertato, non vi è spazio per valutazioni discrezionali del giudice dell’esecuzione, tenuto ad individuare la decisione da revocare ed a ridefinire il trattamento sanzionatorio eseguibile, depurato dalla porzione di pena più afflittiva ai sensi dell’art. 669 comma 1. Questa sezione ha già individuato anche il possibile percorso metodologico da seguire in fattispecie analoghe, allorché ha riconosciuto che “In caso di pluralità di giudicati relativi allo stesso fatto ed alla stessa persona, il giudice dell’esecuzione deve ordinare l’esecuzione del giudicato meno afflittivo e revocare quello più grave, provvedendo ad una revoca parziale di quest’ultimo, qualora, insieme al fatto più volte giudicato, la sentenza che prevede la pena di entità maggiore riguardi anche altri fatti concorrenti, dovendosi in questa ipotesi detrarre, con una operazione matematica, dalla pena irrogata per il fatto giudicato più volte, quella necessaria per eliminare l’effetto della violazione del divieto di secondo giudizi (Sez. 1, 4417/2018).

Il divieto di pluralità di sentenze per il medesimo fatto contro la medesima persona (art. 669) non viene meno sol perché, insieme a tale fatto, le più sentenze giudichino anche altri fatti, in ipotesi concorrenti con quello ripetutamente giudicato (Sez. 1, 34048/2014).

Il principio del ne bis in idem assume portata generale nel vigente diritto processuale penale. È, quindi, indubbio che nel procedimento di esecuzione opera il principio della preclusione processuale derivante dal divieto del bis in idem, nel quale, secondo la giurisprudenza di legittimità, s’inquadra la regola dettata dal secondo comma dell’art. 666, che impone al giudice dell’esecuzione di dichiarare inammissibile la richiesta che sia mera riproposizione, in quanto basata sui «medesimi elementi», di altra già rigettataCon tale limite si è inteso creare, per arginare richieste meramente dilatorie, un filtro processuale, ritenuto dal legislatore delegato necessario in un’ottica di economia e di efficienza processuale. In questa prospettiva emerge la nozione di «giudicato esecutivo», impiegata in senso atecnico, per rappresentare l’effetto «auto conservativo» di un accertamento rebus sic stantibus: più correttamente la stabilizzazione giuridica di siffatto accertamento deve essere designata con il termine «preclusione», proprio al fine di rimarcarne le differenze con il concetto tradizionale di giudicato. Appare, quindi, un dato acquisito, nella giurisprudenza di legittimità, quello secondo cui è ammissibile la proposizione di un nuovo incidente di esecuzione che si fondi su nuovi elementi, allorquando la precedente richiesta sia stata respinta (Sez. 7, 17892/2018).

Non ricade nei casi di revisione il cd. “conflitto pratico di giudicati”, di cui all’art. 669, che, in applicazione del generale divieto del ne bis in idem, stabilisce che va posto in esecuzione un solo titolo, se sussistono più titoli riguardanti lo stesso imputato e il medesimo fatto e, in caso di conflitto tra una sentenza di proscioglimento e una di condanna, va applicata la sentenza di proscioglimento (art. 669, comma 8). In definitiva, dunque, il caso di “ne bis in idem” non rientra tra le ipotesi in cui è ammessa la revisione della condanna, trattandosi di un proscioglimento di carattere processuale che esula dalla nozione di errore giudiziario sopra descritta. E difatti, l’art. 631, nello stabilire che “gli elementi in base ai quali si chiede la revisione devono, a pena di inammissibilità della domanda, essere tali da dimostrare che il condannato doveva essere prosciolto a norma degli artt. 529, 530 e 531”, non richiama l’art. 649, che disciplina il proscioglimento in ipotesi di divieto di bis in idem (Sez. 4, 42328/2017).

In tema di esecuzione, il disposto di cui all’art. 669, comma 8, relativo al caso che vi sia stata pluralità di sentenze per il medesimo fatto contro la stessa persona, può trovare applicazione qualora la questione del “ne bis in idem” sia stata risolta, solo in via incidentale, negativamente da parte del giudice della cognizione, non assumendo tale decisione efficacia formale di giudicato (Sez. 3, 17197/2016).

Nell’ipotesi di conflitto tra due provvedimenti sanzionatori di natura amministrativa, emessi a carico della stessa persona e per il medesimo fatto, rispettivamente dall’autorità amministrativa e dal giudice penale, ove il provvedimento giurisdizionale risulti essere maggiormente gravoso per l’entità della sanzione irrogata, il giudice, in applicazione analogica dell’art. 669, comma 1, ne deve ordinare la revoca, ma non può disporre l’esecuzione dell’atto amministrativo irrogativo della sanzione, esulando tale potere dall’ambito della giurisdizione attribuita dalla legge al giudice ordinario (fattispecie, nella quale in relazione alla medesima infrazione al codice della strada, l’imputato aveva subito una ingiunzione prefettizia di pagamento e una più gravosa sanzione applicata con la sentenza di condanna del giudice penale) (Sez. 1, 12590/2015).

Il giudice dell’esecuzione, per effetto della sentenza della Corte costituzionale 251/2012, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, comma 4, Cod. pen., nella parte in cui vietava di valutare prevalente la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, DPR 309/1990, sulla recidiva di cui all’art. 99, comma, Cod. pen., può affermare la prevalenza dell’attenuante anche compiendo attività di accertamento, sempre che tale valutazione non sia stata esclusa dal giudice della cognizione in applicazione di norme diverse da quelle dichiarate incostituzionali; tuttavia, nel rideterminare la pena, deve attenersi ai limiti derivanti dai principi in materia di successione di leggi penali nel tempo, che inibiscono l’applicazione di norme più favorevoli eventualmente “medio tempore” approvate dal legislatore (SU, 42858/2014).

All’imputato nei cui confronti sia divenuta irrevocabile sentenza di condanna o di estinzione del reato per prescrizione non può essere estesa, a norma dell’art. 669, l’assoluzione definitiva intervenuta in autonomo giudizio nei confronti del coimputato del medesimo reato, ma gli è consentita solo la possibilità di conseguire, qualora ne ricorrano i presupposti, la revisione della sentenza, ai sensi dell’art. 630 comma 1 lett. a) per inconciliabilità dei giudicati (Sez. 1, 39538/2013).

La regola di cui all’art. 669, pur se concepita con riguardo alle decisioni irrevocabili intervenute nel processo di cognizione, allo scopo di superare, con l’applicazione del criterio del favor rei, l’anomalia costituita dal contrasto di giudicati, deve trovare applicazione anche nel caso di contrasto fra decisioni definitive emesse da distinti giudici dell’esecuzione sull’identico oggetto nei confronti dello stesso imputato (Sez. 1, 26031/2005).

Qualora nei confronti della stessa persona e per lo stesso fatto siano state pronunciate una sentenza di non luogo a procedere e una sentenza di applicazione della pena su richiesta, è quest’ultima quella che deve essere eseguita, avuto riguardo, per un verso, alla regola dettata dall’art. 669, comma 9 (Sez. 1, 39337/2002).