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Le donne dell’altro mondo: simboli religiosi e questione di genere nel contesto europeo

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Le donne dell’altro mondo: simboli religiosi e questione di genere nel contesto europeo

 

Con specifico riferimento alla presenza dei simboli religiosi negli spazi pubblici, la maggior parte dei Paesi europei non ha mai adottato un atteggiamento omogeneo, rivelando la netta incapacità delle democrazie liberali di pervenire ad una soluzione in ordine alle difficoltà di integrazione delle comunità islamiche. 

In Europa, l’impiego del velo rappresenta una comunicazione paradossale che tende a negare lo stereotipo della donna musulmana (Maniscalco, 2011). Il caso più noto e discusso è senz’altro quello della Francia, ove tra il 1989 e il 2014 si è verificato il brusco passaggio da un approccio di modesta apertura, in virtù di un’interpretazione moderata del principio di laicità ad una più severa e dispotica applicazione del modello separatista, imputabile anche agli attacchi terrostici avutesi nei mesi di gennaio e novembre 2015. È necessario precisare che il diniego dell’impiego del velo in Francia scaturisce dal rischio di minare la separazione ideale tra Stato e religione, ossia uno dei pilastri della società francese, espressione della sua identità collettiva; tale identità è intesa come “laicità” dello Stato (Fernandez Sanchez, 2022). Nel 1989, il Conseil d’Etat, chiamato ad esprimere un parere sul caso di alcune studentesse musulmane espulse da un collegio della banlieue di Parigi per essersi presentate in classe con il niquab, dichiara che “l’uso del velo in quanto tale non è incompatibile con il principio di laicità, nel momento in cui rappresenta l’esercizio della libertà di espressione e di religione”, aggiungendo che “il porto dei simboli religiosi all’interno delle istituzioni scolastiche può, ove necessario, essere oggetto di una regolamentazione che tenga conto congiuntamente di una serie di principi, tra i quali il rispetto dei principi di laicità e di pluralismo; il dovere di rispettare gli altri, nelle loro convinzioni e nell’espressione della loro personalità”. Nel 2014, invece, la Cassazione ammette la liceità del licenziamento della donna musulmana velata sul posto di lavoro, ponendosi in linea con la legge del 2010 avente ad oggetto il divieto di coprire il volto in luogo pubblico, che precede la normativa del 2004 volta a vietare a studenti e insegnanti di indossare lo hijab nel pubblico impiego. È importante riportare le motivazioni sottese all’entrata in vigore delle due leggi: alla base della prima vi è la convinzione che la laicità dello Stato sarebbe stata minacciata da una sorta di “ripiego comunitario” che avrebbe pregiudicato la sopravvivenza del contratto sociale così come applicato dalla società francese (Fernandez Sanchez, 2022); l’approvazione della legge successiva, pur essendo stata accompagnata da motivazioni espresse in termini di liceità, poggia anche sul tema della parità di genere tra uomini e donne, sottolineando “la volontà di bandire quelle pratiche radicali che attentano alla dignità e all’uguaglianza tra uomini e donne”. A destare maggiore perplessità è il fatto che entrambe le normative abbiano trovato una tenace opposizione proprio da parte delle donne musulmane (Stradella, 2021), facendo leva sulla Risoluzione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa del 23 giugno 2010 (“nessun Paese membro dovrebbe adottare leggi che introducano il generalizzato divieto di indossare il burqa e il niqab [...]. Indossare tali abiti potrebbe essere un pericolo per la dignità e la libertà delle donne, ma è vero che anche un bando totale potrebbe escludere queste donne dalla partecipazione alla vita sociale e lavorativa”). Nel periodo successivo all’attentato di Nizza del 2016, la Francia si è trovata nuovamente ad affrontare il tema della “contaminazione” dello spazio pubblico a fronte delle ordinanze c.d. “antiburkini”, ossia provvedimenti diretti a vietare alle donne musulmane di indossare il burkini, uno specifico abbigliamento balneare ideato per le donne di fede islamica che lascia il volto completamente scoperto, coprendo però tutto il resto del corpo. Il Consiglio di Stato, rovesciando la decisione del Tribunale di Nizza, ha statuito che i Sindaci siano incorsi in un eccesso di potere, tutelando in una forma illegittima l’ordine pubblico, comportando “un attentato grave e manifestamente illegittimo alle libertà fondamentali quali la libertà di circolazione, la libertà di coscienza e la libertà personale”. Recentemente, il Senato francese ha approvato un disegno di legge che proibisce l’utilizzo del velo islamico da parte di giovani minori di diciotto anni, definendolo esplicitamente come “abbigliamento o vestiario che indicherebbe una presunta inferiorità della donna rispetto all’uomo”.

Sebbene quasi tutti gli ordinamenti liberali europei risultino sempre di più in difficoltà nel governare la diversità, lo studio del caso fracese si rivela particolarmente interessante in ragione del seguente elemento: la laicità, così come interpretata nello scenario francese, non è coerente con i valori riconosciuti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) poichè, per taluni aspetti, reprime la libertà religiosa. Di ciò non sembra tenere conto la Corte EDU nel celebre affaire S.A.S. c. Francia del 2010, che trae origine dal ricorso presentato da una giovane donna, pakistana di nascita ma di nazionalità francese, per la quale l’uso del velo in pubblico costituisce segno di rispetto della tradizione sunnita: la ricorrente sostiene la palese incompatibilità della nuova normativa con talune disposizioni della Convenzione (artt. 3, 8, 9, 10, 11, 14). Nell’ottica dei giudici di Strasburgo, la proibizione del velo integrale in Francia sarebbe legittima: il legislatore, godendo di un ampio margine di apprezzamento, si è reso effettivamente garante “delle condizioni che permettono agli individui di vivere insieme nella loro diversità”, in quanto “l’interazione tra gli individui può essere alterata dal fatto che taluni nascondino il viso”. Come ben osservato in dottrina, quel che colpisce è la coincisione di tale giustificazione, che rimette al legislatore politico “il vivere insieme”, la disciplina giuridica “dell’interazione degli individui” e dunque della medesima propensione degli individui ad isolarsi o interagire con altri, elevando questo a “valore” o “interesse” tanto preminente da vanificare nel giudizio di bilanciamento un diritto fondamentale come quello di religione (Angiolini, 2016). Occorre puntualizzare che in numerose occasioni la Corte EDU ha ritenuto legittima la restrizione del diritto individuale a tutela di principi organizzativi fondamentali dello stato o delle sensibilità di specifici gruppi sociali, ricondotti entro i criteri dell’ordine pubblico e dei diritti altrui (si veda Leyla Sahin c. Turchia). Il caso di specie, però, si diversifica dai precedenti: i giudici di Strasburgo, nell’affermare che la legge francese è espressione di un “pluralismo selettivo” e di una “tolleranza restrittiva” estranei alla gran parte delle realtà europee, avrebbero dovuto non barricarsi dietro la formula del margine di apprezzamento (Angeletti, 2016). Dalle pronuncie della Corte EDU traspare chiaramente una netta chiusura nei confronti dei simboli della cultura islamica; i giudici europei assumono una posizione apparentemente neutrale, occultando invece un pregiudizio ripugnante, ossia la percezione del velo come nemico simbolico della democrazia in Europa (Di Marco, 2012).

Sulla stessa scia della Francia, il Belgio ha introdotto nel 2011 una normativa antiburqa, foriera di criticità. Senza entrare nei dettagli, appare opportuno limitarsi a evidenziare come nel contesto belga il modo di affrontare la “diversità” abbia assunto ormai connotati propri, non sovrapponibili a quelli francesi per almeno due ragioni: la prima è rappresentata dalla sua connaturale e strutturale “multiculturalità”, essendo caratterizzato non solo da diversità linguistiche, ma anche religiose e identitarie; la seconda attiene alla consolidata maturazione di un separatismo più “attenuato”, a favore di una laicità intesa nel senso di un impegno al rispetto della diversità (Giannuzzo, 2022). 

Merita specifica attenzione l’esperienza maturata dall’ordinamento svizzero, in grado di rivelare una sensibile evoluzione delle modalità di interazione dello Stato costituzionale europeo con le plurime manifestazioni simboliche della confessione islamica. A prescindere dalle singolarità dell’ordinamento svizzero, l’accoglimento nel testo costituzionale federale dell’art. 10a costituisce una novità di rilievo: a livello europeo, per la prima, si è pervenuti alla modifica di un testo costituzionale volto a introdurre una norma espressamente diretta a stigmatizzare un comportamento culturalmente orientato di una minoranza confessionale (“Nessuno può dissimulare il proprio viso negli spazi pubblici né nei luoghi accessibili al pubblico o nei quali sono fornite prestazioni in linea di massima accessibili a ognuno; il divieto non si applica ai luoghi di culto”). Sebbene tale disposizione costituzionale sia formulata in termini generici, è evidente l’intento di colpire specificatamente le condotte delle donne che indossano forme di velatura integrale. Nei mesi precedenti al referendum del 7 marzo 2021, infatti, si sono confrontate opposizioni politiche e sociali in ordine alla possibilità di vietare o meno l’uso del velo integrale nei luoghi pubblici di tutto il territorio svizzero. È inevitabile interrogarsi sulla probabile replicabilità del predetto evento sulla scena europea, nonchè sui potenziali risvolti dello stesso in ottica internazionale. La duplicazione dell’esperienza costituzionale della Conferenza elvetica in altri contesti europei è implausibile, in virtù della specificità dei meccanismi di democrazia diretta che contraddistinguono l’ordinamento federale svizzero. Al contrario, la nuova disposizione costituzionale potrebbe innescare svariate contestazioni presso la Corte EDU per violazione degli artt. 9 e 14 della CEDU. A tale proposito, vi è chi osserva che l’ampio margine di discrezionalità riconosciuto dalla Corte di Strasburgo agli Stati in vicende simili, assieme all’esigenza giuridicamente sanzionabile del vivere insieme, potrebbero rappresentare la principale argomentazione per il rigetto di un ricorso contro l’art. 10a della Costituzione svizzera, alla luce di un’interpretazione ampia del principio di laicità corrispondente a quella francese (Ceffa, Grasso, 2011).

Rispetto agli scenari considerati, l’Italia assume una posizione maggiormente neutrale, in ragione della mancanza di una regolamentazione che escluda l’impiego del velo integrale. L’art. 5 della legge n. 152/1975 (c.d. Reale) si limita a vietare l’uso di accessori o indumenti che rendano arduo il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo, tra i quali deve essere compreso quello religioso. Con il proposito di tutelare il diritto di libertà religiosa, la Circolare del Ministero dell’Interno del 14 marzo 1996, n. 4, invita le Amministrazioni locali a rilasciare le carte d’identità anche in presenza di capo coperto nella foto identificativa, ove richiesto, purche i tratti del viso siano visibili. In tale quadro, si colloca anche la Carta dei Valori della cittadinanza e dell’integrazione del 2007, contenente talune previsioni che sollevano perplessità: nel documento compare una disposizione appositamente dedicata al velo islamico (punto 26), con cui si prevede che esso è lecito se indossato liberamente, ma è comunque sempre vietato laddove copra interamente il volto. A tale riguardo, vi è chi sottolinea due problemi collegati alla predetta previsione: la difficoltà di accertare l’effettiva libertà della scelta individuale, e nell’ipotesi di bambine infraquattordicenni, l’impossibilità di comprimere eccessivamente quel diritto del genitori ad impartire un’educazione religiosamente orientata garantita dalla Costituzione Italiana, riconosciuta in forma così ampia da imporre allo Stato la predisposizione di aiuti in favore delle scuole private di carattere religioso (Fiorita, 2008). A causa dell’inerzia legislativa, si è assistiti ad un singolare interventismo sul tema da parte delle Amministrazioni locali, e in particolare dei Sindaci che, in numerose occasioni, hanno imposto un divieto generalizzato di indossare in velo integrale sul territorio del Comune interessato. Dal 2004 in poi, complice la rinnovata spinta centrifuga generata dalla svolta regionalista, i Sindaci di piccole realtà locali (la maggior parte del Nord Italia) hanno ritenuto di intervenire sulla questione della legittimità dell’uso del velo integrale; le ordinanze pretendevano di proibirne l’impiego in luogo pubblico o aperto al pubblico, facendo leva su un’interpretazione estensiva della c.d. legge n. 152/1975 e dell’art. 85 del TULPS (“È vietato comparire mascherato in luogo pubblico”). Tra le diverse, è particolarmente interessante la sentenza n. 3076/2008 con cui il Consiglio di Stato si è pronunciato sull’impugnazione ad opera del Comune di Azzano Decimo della decisione del Tar: secondo il giudice amministrativo, il Sindaco non si è limitato a richiamare l’attenzione sulla necessità di rispettare la legge, ma ha concesso un’errata interpretazione della legge n. 152 del 1975; altrettanto errato è il riferimento dell’ordinanza sindacale all’art. 85 del R.D. n. 773/1931, in quanto è chiaro che il burqa non costituisce una maschera, bensì un tradizionale capo di abbigliamento di alcuni popolazioni, utilizzato anche con aspetti di pratica religiosa. Nel caso di specie, il Consiglio di Stato valorizza la peculiarità del burka, ricordando che “si tratta di un utilizzo che generalmente non è diretto ad evitare il riconoscimento, ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture”. Il divieto del velo islamico da parte del Sindaco costituisce “una scelta impositiva e sanzionatoria nei confronti di una minoranza, dietro alla quale rischiano di annidarsi strumentalizzazioni ed intolleranze xenofobe o religiose” (Cossiri, 2010).

Oggi, il mondo occidentale continua a imputare all’Islam ogni tipo di responsabilità, identificandolo alla stregua di un “fossile medievale”, inadeguato alle condizioni moderne ed incapace di conformarsi agli straordinari mutamenti sociali, economici e demografici che hanno stravolto il pianeta. L’opera di miglioramento della condizione femminile nelle realtà analizzate implica il coinvolgimento dell’Occidente, al quale si chiede di sopprimere i propri pregiudizi. L’animato e travagliato dibattito sul velo rivela gli effettivi rapporti e gli intenti delle parti: l’Occidente dominatore vuole convincersi e convincere della propria superiorità esaltando l’emancipazione delle “proprie” donne, in modo tale da dimostrare che le donne “altrui” patiscono una condizione di non emancipazione; il predetto atteggiamento tende a stimolare quell’islam politico reazionario che strumentalizza a sua volta le “proprie” donne e la loro condizione di isolamento per dimostrare di avere preservato la propria dignità di fronte ad un Occidente che le avrebbe pregiudicate (Arkoun, 2002). La difficile condizione in cui versano le donne islamiche, la discriminazione e l’oppressione che interessa una parte di esse fuori e dentro il contesto arabo richiedono all’Occidente di predisporre con prontezza azioni e strumenti articolati in termini di garanzia dei loro diritti, piuttosto che misure ad hoc tese a vietare l’uso di taluni capi di abbigliamento (Colaianni, 2017). Il mondo occidentale è chiamato ad abbandonare le proprie visioni paternalistiche ed etnocentriche, provvedendo ad elaborare concetti e strumenti metologici che consentano di fornire una valida risposta alla questione femminile anche ai fini dell’integrazione delle donne islamiche nella società. La cittadinanza democratica non è solo ciò che è riportato sui documenti, ma è composta da diversi elementi, disposti sugli assi dell’identità e dell’uguaglianza.

Tradizionalmente, l’Occidente ha conosciuto molto dell’Islam, più di quanto quest’ultimo abbia conosciuto del primo (Fuller, Lesser, 1996). La situazione, però, sembra essersi ormai capovolta: oggi, il pubblico occidentale tende a prestare attenzione a quanto accade nei Paesi islamici solo a seguito di crisi o vicende che lo coinvolgono. Occorre tenere presente che sulla questione di genere si gioca il futuro, dal momento che l’uguaglianza fra uomo e donna sarà il motore del sovvertimento di un modello millenario che non regge più la sfida tempi (Abbondante, 2021).

È anche compito dell’Occidente restituire voce e dignità alle donne islamiche.